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Brand journalism: la fine dell’ufficio stampa come lo conoscevamo

Brand journalism: la fine dell’ufficio stampa come lo conoscevamo

Oggi i brand non aspettano più i giornalisti: sono loro i giornalisti di sé stessi.
Piattaforme proprietarie, newsletter editoriali, podcast e format video diventano i nuovi canali di PR.
Ma la domanda resta: quando la comunicazione diretta sostituisce l’intermediazione, chi controlla la credibilità?
È da qui che tutto cambia: i brand smettono di aspettare il giornalista e iniziano a comportarsi come giornalisti di sé stessi.
Da tempo non si limitano più a inviare notizie, ma le producono. L’informazione non passa più solo dai media, ma da chi ha qualcosa da dire e gli strumenti per farlo.
È in questo scenario che il brand journalism si è imposto come forma evoluta della comunicazione aziendale. Il termine non è nuovo: è nato quasi vent’anni fa, ma oggi torna al centro della comunicazione perché la fiducia, non la visibilità, è diventata la vera valuta di scambio.

Con il brand journalism i brand non aspettano più il titolo: lo scrivono

Il cambiamento è stato graduale ma profondo. Prima le aziende cercavano copertura sui media, poi hanno capito che potevano diventare loro stesse media company. All’inizio era un esercizio di visibilità, oggi è una strategia strutturata: produrre contenuti proprietari permette di costruire un racconto coerente, senza filtri, con linguaggio e tempi propri. Ma, come sempre, quando salti un intermediario, guadagni libertà e perdi qualcosa di altrettanto importante: la distanza critica.

Negli ultimi anni molte aziende hanno scelto di comportarsi come vere redazioni. Red Bull ha costruito un impero di contenuti che spazia dallo sport alla musica, fino ai documentari. LEGO ha trasformato la creatività dei suoi fan in un flusso costante di storytelling, costruendo una community che si comporta come un media partecipativo. Patagonia usa il proprio spazio digitale per sostenere battaglie ambientali con una credibilità che va oltre il prodotto. Loro non “fanno comunicazione”: fanno cultura di marca, e la distribuiscono con la costanza di un giornale.

Le PR nell’era della disintermediazione

Questa tendenza è diventata ancora più evidente dopo la pandemia, quando la fiducia nei media tradizionali ha vacillato e quella nei brand “di riferimento” è cresciuta. In un contesto dove il pubblico si informa attraverso canali frammentati, la reputazione non passa più solo dal giornalismo, ma da un insieme di voci: creator, newsletter, community e canali diretti.
La notizia non la racconta più chi la riceve, ma chi la genera.

Per le PR è un terremoto silenzioso. Il vecchio modello (comunicato, recall, rassegna) si scontra con un ecosistema dove il tempo di reazione è immediato e le persone si fidano di chi percepiscono come vicino, non necessariamente autorevole. L’ufficio stampa tradizionale deve diventare un laboratorio di contenuti e relazioni, capace di tradurre i messaggi aziendali in narrazioni con valore giornalistico e umano.
Chi si limita a “mandare notizie” resta fuori dalla conversazione.

La credibilità come nuova breaking news

Il brand journalism ha dato ai brand la libertà di raccontarsi, ma anche la responsabilità di farlo in modo onesto. Il paradosso è che oggi i brand sono più trasparenti che mai, ma anche più soli.
Nel momento in cui diventano media, devono imparare a gestire la responsabilità editoriale: scegliere cosa dire, ma anche cosa non dire. Pubblicare una newsletter settimanale o un podcast aziendale non significa solo comunicare: significa costruire un punto di vista. E se quel punto di vista manca, tutto si riduce ad autopromozione ben confezionata.

Il nuovo ufficio stampa, o meglio, la nuova area comunicazione, deve saper unire tre competenze: la capacità giornalistica di individuare notizie, la visione strategica del marketing e la sensibilità narrativa del brand. È un mestiere ibrido, che unisce contenuti e relazioni.
Le aziende che hanno capito questa trasformazione non cercano “copertura stampa”, ma attenzione qualificata. Creano relazioni durature con testate, creator e community che condividono valori, non solo target.

L’ufficio stampa non è morto. Ha solo cambiato pelle.
È passato dal “mandare” al “curare”. Dal raccontare l’azienda a progettare la sua voce.
E in un’epoca in cui ogni brand può essere media, la vera sfida non è parlare di sé, ma dire qualcosa che valga la pena ascoltare.