Negli ultimi anni, il disagio è diventato un asset narrativo. I brand parlano di burnout, di ansia, di stanchezza cronica come se fossero categorie di mercato. Il “prenditi cura di te” è il nuovo claim universale, e il “va bene non essere al massimo” è diventato il tono di voce dominante. Un tempo, le aziende comunicavano solo performance: energia, ambizione, aspirazione. Oggi, fanno campagna sulla fragilità.
Non si tratta di stabilire se sia giusto o meno farlo. La domanda fondamentale è: quanto di questo interesse è autentico? Perché la vulnerabilità, quando viene trasformata in uno strumento narrativo, rischia di perdere il suo valore originario e diventare un linguaggio come tanti altri. E quando un linguaggio si svuota, perde anche il potere di creare connessione.
Quando il malessere diventa un posizionamento
Il “trauma marketing” è emerso come risposta a un’esigenza reale: le persone sono stanche. Stanche del lavoro, delle aspettative, della retorica del successo. I social hanno accelerato tutto: mostrarsi perfetti non è più sostenibile, né credibile. I brand l’hanno capito e hanno iniziato a parlare di vulnerabilità come un nuovo terreno emotivo.
Ci sono campagne che hanno funzionato, perché sono partite da un ascolto sincero e da una coerenza tra il messaggio e le azioni del brand. Altre, invece, sembrano costruite a tavolino, pensate solo per cavalcare un trend prima che passi. Ed è qui che scatta la frizione: quando il brand usa il malessere come estetica, non come responsabilità.
La differenza è evidente in un semplice dettaglio: le campagne che funzionano non si limitano a dire “noi siamo dalla tua parte”, ma parlano di “cosa abbiamo fatto di concreto per esserlo”.
Il trauma marketing e il rischio della normalizzazione forzata
Molte campagne sulla stanchezza o sul burnout sembrano dire: “È normale sentirsi così, non preoccuparti”. Ma normalizzare non significa legittimare, e soprattutto, non significa risolvere. La comunicazione può aprire conversazioni necessarie, ma non può sostituirsi alla cura. Quando un brand invita a “prendersi del tempo per sé” e poi spinge un consumo compulsivo di prodotti wellness, il messaggio perde ogni credibilità.
Il pubblico percepisce subito la differenza: non è empatia, è convenienza narrativa. Per questo, il “trauma marketing” è un terreno scivoloso. Funziona solo se si poggia su una base concreta: politiche interne, iniziative reali, scelte coerenti con ciò che si comunica. Il resto è estetica del disagio, e l’estetica, prima o poi, si sgretola.
La vulnerabilità come linguaggio, non come leva
La vulnerabilità ha un grande potenziale, perché rompe la distanza tra brand e persone. Ma il problema nasce quando diventa una leva narrativa come le altre. Una vulnerabilità “prodotta”, curata come un contenuto lifestyle, priva di qualsiasi rischiosità, non crea relazione: crea cinismo.
I professionisti della comunicazione dovrebbero chiedersi: stiamo usando il tema o stiamo entrando in un discorso? Il tema è un pretesto. Il discorso implica una posizione, un impegno, un pezzo di identità.
Cosa rende autentica una campagna che parla di malessere
Non serve rivoluzionare il brand. Serve precisione. E coraggio.
Ecco cosa distingue una campagna autentica da una costruita:
- Parlare solo di ciò che si conosce
Un brand non deve intervenire su tutti i temi emotivi, ma solo su quelli in cui può essere davvero credibile. - Mostrare ciò che fa, non ciò che dice
Se si parla di burnout, le iniziative interne contano più dei visual. - Evitare il tono terapeutico
Un’azienda non è uno psicologo, e non deve imitare il linguaggio della cura. - Dare spazio alle persone, senza usarle
Le storie reali funzionano quando non sembrano materiale di produzione. - Accettare il rischio della complessità
Il malessere non è instagrammabile. Richiede sfumature, non slogan.
Il disagio non è una strategia, è una responsabilità
Il marketing del malessere può davvero rompere tabù, dare voce a conversazioni necessarie e costruire un rapporto più umano con il pubblico. Ma può farlo solo se è radicato nella realtà e non nel posizionamento.
Il problema non è parlare di vulnerabilità. Il vero valore sta nel fare ciò che si dice, nel non limitarsi a sembrare empatici, ma essere credibili. Quando un brand mostra ciò che fa invece di limitarsi a dire ciò che sente, il pubblico lo capisce. E quando lo capisce, ascolta. Non perché il messaggio è empatico, ma perché è credibile.