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CPR-MAGAZINE SOLUZIONE GROUP - La rivoluzione del visual imperfetto: perché l’estetica patinata non funziona più

La rivoluzione del visual imperfetto: perché l’estetica patinata non funziona più

Il visual imperfetto è ovunque. Nei feed, nelle campagne pubblicitarie, nelle copertine dei dischi e nei TikTok girati male. Dopo anni trascorsi a idolatrare la perfezione patinata — luci morbide, simmetrie chirurgiche, vite levigate da filtri e preset — il pubblico si è stancato. Di più: si è ribellato.

Quella che stiamo vivendo non è una semplice moda, ma un cambio di paradigma estetico. In un ecosistema visivo dominato da standard finti e irraggiungibili, l’imperfezione diventa un atto di verità. Un linguaggio visivo nuovo, disordinato eppure potentissimo, che comunica più di mille immagini “perfette”.

La copertina di Brat di Charli XCX come manifesto culturale

Il caso più eclatante di questo shift culturale? La copertina dell’album Brat di Charli XCX. Uno sfondo verde acido, un font brutto (sì, volutamente brutto), una grafica che sembra uscita da Paint nel 2002. Il risultato? Una provocazione che ha travolto TikTok e X, scatenando migliaia di commenti, meme, remix, tributi.

E non è solo perché Brat è un disco fortissimo. È perché quella cover parla chiaro: basta perfezione, vogliamo verità. Charli non ha solo pubblicato un album. Ha messo in copertina un manifesto generazionale: “non vogliamo piacere a tutti, vogliamo essere real*”.

La cover ha superato la sfera musicale per diventare un simbolo culturale. È l’estetica “brutta” che diventa potente. La patina levigata lascia spazio a una grammatica visiva più cruda, disordinata, ma tremendamente efficace.

Il visual imperfetto come richiesta di autenticità (soprattutto dalla Gen Z)

La Gen Z è la prima generazione cresciuta in un mondo filtrato, photoshoppato, pieno di influencer con vite che sembrano serie Netflix. Eppure, è anche la prima a dire basta. Basta immagini perfette, basta messaggi falsi. Vogliono vedere pelle vera, disordine reale, grafiche che non sembrino uscite da un pitch da 100k.

Non è un caso che i contenuti più virali sui social oggi siano quelli sfocati, sinceri, ironici, goffi. Quelli che mostrano il backstage più del set. Che puntano su storytelling visivi sporchi ma carichi di significato. L’imperfezione non è più un errore da correggere: è una scelta di campo.

E questo vale anche nel marketing: i brand che osano farsi vedere “scomposti” generano più fiducia e più engagement. Perché comunicano vicinanza, non distanza.

Visual imperfetto e branding: il coraggio di essere “brutti”

Non si tratta solo di seguire una tendenza. Si tratta di rispondere a una domanda di senso. Oggi, il visual imperfetto funziona perché riflette il mondo com’è: disordinato, contraddittorio, incasinato. In altre parole: umano.

Il concetto di ugly privilege — ovvero il potere di chi sceglie di mostrarsi imperfetto — è diventato un asset creativo. Una risorsa strategica. E no, non significa “fare contenuti brutti per fare i fighi”. Significa lavorare su un’estetica che rompe le regole visive tradizionali per costruire un’immagine più vera, più coraggiosa, più connessa.

I brand che lo hanno capito sono già un passo avanti: Glossier, che mostra la pelle vera senza ritocchi; Monki, che usa l’acne come linguaggio visivo; Diesel, che da anni cavalca l’imperfezione come linguaggio culturale. Ma anche progetti emergenti, creator indipendenti, magazine digitali che scelgono il pixel sbagliato per raccontare la storia giusta.

Perché il visual imperfetto è il futuro della comunicazione visiva

Non stiamo assistendo a una semplice inversione di tendenza, ma a un cambio strutturale nelle preferenze estetiche. Il visual imperfetto è diventato un linguaggio nuovo, fluido, partecipativo. Non richiede approvazione: richiede attenzione. Non cerca consenso: cerca relazione.

È il riflesso di una cultura che ha smesso di voler sembrare perfetta per tornare a sentirsi vera. E in un mercato affollato di immagini “belle” ma vuote, sono proprio le immagini sbagliate — sporche, rumorose, sghembe — ad avere finalmente qualcosa da dire.

Chiaro: se stai vendendo un orologio da 12.000 euro o un resort alle Maldive, forse ti serve ancora un po’ di perfezione. Ma se vuoi entrare in sintonia con chi ti guarda, se vuoi essere credibile — non solo carino — allora meglio una foto storta ma sincera che un’immagine impeccabile e inutile.