Dalla pubblicità patinata al linguaggio dei meme
Un tempo la pubblicità si misurava a colpi di spot da 30 secondi e billboard giganti. Oggi, invece, bastano quattro parole su un’immagine sgranata di un cane confuso per mostrare un brand nel feed di milioni di persone. Benvenuti nell’era del meme marketing: il lato ironico, spietato e sorprendentemente efficace della comunicazione digitale.
Alcuni brand hanno capito la lezione: il meme non è solo una barzelletta visiva, è un codice culturale e se lo usi bene, parli la lingua di chi sta dall’altra parte dello schermo. Ma che cosa significa davvero “codice culturale”? Significa che i meme non sono solo immagini o video divertenti: racchiudono riferimenti condivisi, modi di pensare e di ridere che funzionano solo dentro una certa comunità. Entrare in questo linguaggio vuol dire riconoscerne le regole non scritte: il tempismo, l’autoironia, la capacità di stare dentro al contesto senza sembrare ospiti indesiderati.
Esempi concreti di meme marketing: chi ci riesce e chi inciampa
Pensiamo a Netflix: i suoi account social hanno trasformato i meme in una lingua ufficiale. Un caso emblematico è stato il lancio della quarta stagione di Stranger Things: Netflix ha cavalcato il boom del brano “Running Up That Hill” di Kate Bush creando meme che lo associavano a situazioni quotidiane, giocando sull’effetto nostalgia e sull’ironia visiva. Il risultato? Una pioggia di contenuti condivisi dagli utenti, il brano tornato in classifica 37 anni dopo e una serie trasformata in fenomeno globale. È lì che un brand smette di sembrare “azienda” e diventa parte della conversazione culturale.
Non sempre però funziona così. Nel 2024 il British Museum ha provato a cavalcare il trend di TikTok sull’“Impero Romano”, ripostando un video per promuovere la mostra Legion: Life in the Roman Army. Nel contenuto si invitavano le “girlies” single a visitare l’esposizione per “trovare uomini” aggirandosi spaesate tra le sale. L’intento era ironico, ma il messaggio è stato percepito come sessista e riduttivo: sembrava che il museo banalizzasse il ruolo delle donne nella storia, rafforzando stereotipi anziché smontarli. La reazione è stata immediata: critiche da parte del pubblico e di accademici, accuse di superficialità e commenti indignati. Il post è stato cancellato e il museo ha dovuto scusarsi pubblicamente. Un boomerang comunicativo che mostra quanto sia sottile la linea tra ironia e scivolone.
Strategia, non travestimento
Il meme marketing funziona perché gioca su tre leve potentissime: immediatezza, riconoscibilità e ironia. È comunicazione veloce, istantanea, spesso più incisiva di mille claim patinati. Ma è anche un’arma a doppio taglio: il meme che oggi fa ridere, domani è già vecchio, dopodomani diventa cringe. E se sbagli onda, non solo perdi credibilità, ma rischi pure di diventare tu stesso il bersaglio della battuta.
La domanda vera è questa: il meme può trasformarsi in strategia e non solo in un giochino usa e getta? Sì, ma dipende da come lo integri. Non basta piazzare una reaction di DiCaprio in un post per sembrare “cool”. Il meme funziona quando è coerente con il tono del brand, quando diventa un tassello naturale della narrazione e non un travestimento da giovane.
Per trasformare i meme in vera strategia e non in trovate estemporanee serve metodo: monitorare costantemente i trend per capire quando un format è ancora caldo, adattarlo al tono del brand senza copiarlo pari pari, e soprattutto testare la risposta del pubblico. Funziona se il meme diventa un tassello della narrazione (ad esempio per lanciare un prodotto o commentare un tema di settore), non se resta una battuta isolata. In pratica: velocità, coerenza e capacità di piegare il linguaggio dei meme alla propria voce, senza farsene travolgere.
Moda passeggera o grammatica nuova?
Moda passeggera? Difficile. I meme nascono e muoiono a una velocità vertiginosa, ma il meccanismo che li sostiene è stabile: le persone si fidano di linguaggi rapidi, condivisibili e complici. Oggi è un format, domani sarà un altro, ma la grammatica è la stessa: immediatezza, riconoscibilità, ironia. Per i brand questo significa non inseguire ogni singolo trend, ma imparare a leggere il codice che li genera. Solo così la comunicazione smette di essere un inseguimento affannoso e diventa parte naturale del flusso culturale. Chi resta fermo, invece, rischia di parlare una lingua che nessuno ascolta più.