C’era un tempo in cui bastava cambiare logo, aggiornare il font e lanciare un nuovo payoff per dire “abbiamo fatto rebranding”. Bastava una direzione creativa nuova, qualche declinazione multicanale e una campagna ben confezionata per convincere il pubblico che l’identità del brand fosse cambiata davvero. Quel tempo è finito.
Oggi un rebranding non riguarda più (solo) l’azienda. Riguarda il mondo in cui si inserisce. E soprattutto, riguarda le persone che lo osservano, lo vivono, lo giudicano.
Il rebranding non vive nel vuoto
Fare un rebranding aziendale oggi significa ripensare radicalmente il ruolo che un brand vuole avere nel proprio tempo. Significa capire se il nuovo messaggio è allineato non solo ai valori aziendali, ma anche a quelli della società in cui si muove.
Il rischio? Parlare con un tono che non corrisponde più al momento storico. Apparire scollegati. O peggio: superficiali, opportunisti, incoerenti.
Non è più accettabile, ad esempio, parlare di inclusività con una palette arcobaleno se la cultura interna non riflette quei valori. O dichiararsi sostenibili con un font più green, mentre il modello di business continua a produrre impatti ambientali insostenibili.
Identità visiva e contesto culturale: due binari da tenere allineati
Sempre più spesso, i rebranding che funzionano davvero sono quelli che ascoltano il contesto: i cambiamenti nei comportamenti dei consumatori, le nuove sensibilità ambientali, le battaglie sociali, le contraddizioni culturali.
Non basta “riposizionarsi”, bisogna capire dove ci si vuole posizionare nel flusso dei cambiamenti. È un lavoro che richiede consapevolezza, pazienza e una certa dose di coraggio. Perché implica anche lasciarsi alle spalle ciò che non funziona più, anche se ha fatto parte della storia del brand.
E no, questo non significa inseguire ogni trend. Significa fare scelte più radicali: allineare l’identità visiva, verbale e strategica a un pensiero che sia davvero rilevante per il tempo presente.
Quando il rebranding ignora il contesto sociale
Negli ultimi anni, non sono mancate le polemiche. Dai loghi semplificati accusati di banalità, ai restyling “progressisti” percepiti come finti, fino ai casi di vero e proprio backlash mediatico: rebranding che non hanno considerato abbastanza il contesto sociale e che hanno pagato il prezzo di una crisi reputazionale.
Perché oggi il pubblico non guarda più solo il logo. Scruta le intenzioni. Analizza le scelte. Legge tra le righe. E se nota una frattura tra il dire e il fare, la reazione può essere veloce quanto virale.
Coerenza prima di estetica
Chi vuole cambiare pelle deve prima capire chi è diventato. O chi vuole diventare. Il rebranding è un’occasione per fare introspezione di marca. Per rivedere i propri valori, riformulare il proprio linguaggio, aprirsi a nuove relazioni. Non è un’operazione cosmetica, ma culturale.
Per questo motivo, le aziende che affrontano un rebranding senza una cultura interna solida, o senza una reale apertura al dialogo con l’esterno, rischiano molto più di prima. Perché oggi ogni elemento comunica: il sito, i prodotti, le parole, le policy aziendali, le relazioni con i dipendenti, i post sui social. E se il rebranding non è coerente con tutto questo, la distanza si vede.
Una nuova responsabilità
Il lavoro dei brand strategist, dei designer e dei comunicatori è sempre più vicino a quello degli antropologi culturali: serve leggere i segnali deboli, interpretare le trasformazioni sociali, capire come un’identità si costruisce in relazione al mondo, non in astratto.
Un brand non esiste in un vacuum, ma nel rumore, nei conflitti, nei cambiamenti continui di percezione. Chi si occupa di ripensarne l’identità deve farsi carico di questa complessità, senza semplificarla.
Perché il rebranding non è più solo un esercizio creativo: è una dichiarazione di intenzioni. E oggi, le intenzioni contano più che mai.